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Liberare i prigionieri

Aggiornamento: 9 mar 2021

Una meditazione di Pasqua proposta dal Centro Culturale Protestante


di Giampiero Comolli




«Dimoravano in tenebre e in ombra di morte, prigionieri nell’afflizione e nelle catene (…) Gridarono al Signore nella loro angoscia ed egli li salvò dalle loro tribolazioni; li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra di morte, spezzò le loro catene» (Salmo 107, 10.14-14).

Quali sono i gesti fondanti, i movimenti e le posture con cui un salvatore, un liberatore, spalanca le porte di una prigione, riporta alla luce chi giaceva nel buio? Come immaginare la scena estrema del passaggio repentino dall’angoscia alla gioia, dalla morte alla vita? In questi giorni cupi e dolenti, in queste settimane pensose e incerte, in cui ci ritroviamo reclusi nelle nostre stesse case, fa bene provare a raffigurarci interiormente un simile evento liberatore: si rivela infatti terapeutico andare a vedere come altri in passato si siano dedicati a rappresentare il momento radioso della redenzione.


Con un piccolo “viaggio” nelle nostre stanze, andiamo allora fino a Istanbul, ed entriamo nell’antica chiesa bizantina di San Salvatore in Chora. Qui, dipinto sull’abside di una cappella laterale, troviamo un affresco di inizio Trecento, che mostra la “Discesa di Cristo agli Inferi”. Si tratta dunque di un inabissamento estremo del Salvatore fin nel “regno del diavolo”: una discesa che però, nell’icona stessa, viene paradossalmente denominata Anàstasis, vale a dire ascesa, risalita, risurrezione insomma. E perché? Ma perché il tempo di questa calata nell’oltretomba si dispiega durante il Sabato santo, subito dopo la morte di Gesù in croce, e segna quindi il primo evento legato appunto alla sua piena Risurrezione nella Domenica di Pasqua.


La scena che possiamo contemplare in questo dipinto è grandiosa. Al centro della composizione campeggia un Cristo eretto, rifulgente di bianco splendore: il candido, abbagliante riverbero della luce divina. Sotto i suoi piedi nudi giacciono scardinati i due neri battenti della porta infernale. Abbattuta dalla potenza del Salvatore, la barriera dell’Oltretomba è ora in pezzi, con tutti i suoi chiavistelli, chiodi, catene, fermagli sparsi in disordine e ormai inservibili in mezzo al buio dell’Inferno scoperchiato: un buio che ora nereggia inerte sotto i talloni di Gesù. Entro queste tenebre demoniache, finalmente annientate, proprio lì, fra i due battenti del portale, s’intravede a fatica un’ombra grigiastra, riversa e contorta: è Satana, il diavolo in persona, oramai imprigionato e impotente, destinato a venire inghiottito dalle tenebre stesse del suo regno distrutto.

Ma ciò che colpisce più di ogni cosa è il movimento possente del Risorto che, torcendo il busto e facendo leva sulle gambe, afferra con le sue mani, a destra e a sinistra, un uomo e una donna ricurvi, per sollevarli e liberarli dai due sepolcri in cui giacevano. Chi sono mai costoro? Sono Adamo ed Eva, i progenitori di tutta l’umanità, i capostipiti di una folla di defunti che, nel dipinto, vediamo accalcarsi alle loro spalle. Subito dietro Adamo ecco il re Davide e suo figlio Salomone, ecco Giovanni Battista e, un po’ più discosto, Mosè con le sue Tavole della Legge. Subito dietro Eva, ecco un giovane esile, vestito con una candida tunica, un bastone da pastore tra le mani. E lui chi sarebbe mai? È suo figlio Abele, l’inerme, il primo ucciso. E dietro a lui, “primogenito” di tutte le vittime innocenti, ecco la grande folla dei profeti e dei giusti di cui si narra nel Primo Testamento: tutti coloro che, prigionieri delle tenebre mortali, attendevano con ansia la redenzione del Salvatore. Ucciso e disceso pure lui tra i morti, il Cristo inabissato sta ora risorgendo, e subito trascina con sé, verso l’alto dei cieli, i prigionieri del nulla, riportandoli a vita nuova, a vita eterna. Come annuncia l’Omelia pasquale di Melitone di Sardi (II secolo): «Io ho liberato il condannato, a colui che era morto io ho reso la vita, colui che era sepolto io faccio rialzare. Io ho distrutto la morte. Io ho calpestato l’inferno, io ho innalzato l’umanità nel più alto dei cieli, sì io, il Cristo. Io sono il vostro perdono, io sono la Pasqua di salvezza, io sono la vostra luce, la vostra resurrezione».

Ma, per comprendere più a fondo il messaggio che ci viene dall’affresco di San Salvatore in Chora, è bene ricordare una particolarità della tradizione iconografica ortodossa. Mentre l’arte occidentale ha voluto quasi sempre celebrare la Risurrezione di Cristo raffigurando la sua ascensione dalla tomba, la pittura bizantina invece preferisce mostrare l’Anàstasis (la Risurrezione appunto) attraverso la Discesa di Cristo agli Inferi, compiuta nel misterioso giorno intermedio tra la morte sulla croce e la Pasqua di Risurrezione, quando il Signore “discese nel soggiorno dei morti” (come recita il Credo apostolico). Come mai? Vi sono profondi e complessi motivi teologici, che qui non è il caso di sollevare. Ma, al di là delle questioni di fede, e delle nostre rispettive appartenenze o non appartenenze confessionali, una spiegazione simbolica ed esistenziale – pienamente valida anche per noi oggi – forse la possiamo trovare osservando ancor più da vicino il gesto di Gesù che con le sue dita afferra Adamo ed Eva. Guardiamo bene: il Risorto non li prende per mano; Adamo ed Eva non stringono nelle loro le mani di Gesù. Non lo possono fare perché non ne hanno la forza: sono talmente deboli, annientati dal nulla della morte, sono talmente resi esanimi dalle tenebre degli Inferi, da non essere in grado di ricambiare il gesto salvifico di Gesù. E infatti Gesù li deve sollevare prendendoli per i polsi, mentre le dita dei nostri due progenitori penzolano ancora inerti… Però Gesù li afferra, e quelle mani così evanescenti, così senza forza, sono proprio le prime parti dei loro corpi a essere inondate dalla bianca luce abbagliante della vita eterna.


Eccolo dunque, il grande, primario, fondativo gesto di liberazione dei prigionieri, che Gesù Cristo porta a esempio per tutte e tutti noi, nel momento inaugurale dellafesta di Pasqua. Questo gesto significa essere disposti a scendere fin nel fondo del fondo dell’abisso, per andare a prendere e a liberare anche i più deboli dei più deboli, anche quelli che giacciono come morti, afferrandoli per i loro polsi inerti e tirandoli in su, verso la luce. Grazie a un simile gesto le porte del Nulla sono annientate, irrompe la luce della vita nuova e tale bagliore divino già comincia a illuminare proprio questi polsi così sottili, così smagriti, così gracili, come lo erano i polsi di Adamo ed Eva, le prime creature venute al mondo, specchio della nostra vita mortale, ora trasformati in specchio della nostra vita redenta.


 

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